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Andrea Salvini: Su Amalgama di Valeria Serofilli

Le Opere > Amalgama (Poesia)
Su Paolo e Francesca in "Amalgama" di Valeria Serofilli

Pochi canti danteschi come il V dell'Inferno sono stati letti, discussi, analizzati, rivissuti e, a volte, anche traditi. In pochi altri testi letterari ci troviamo a confronto con il dissidio fra l'abbandono, che pare così ovvio, alla più travolgente delle passioni umane e le sue possibili rovinose conseguenze, tra cui, la più terribile, consiste nella dannazione eterna. Ha talmente esercitato da subito il suo fascino sui lettori da diventare uno dei canti più letti e diffusi anche prima del completamento della Divina Commedia, come ha mostrato la ricognizione di uno dei "Memoriali bolognesi" risalente al 1304. I critici si sono divisi a lungo su di esso. Canto dell'amore o canto della pietà? Il Caretti trovò una brillante soluzione critica: amore e pietà sono due "parole tema" che non hanno un vero significato se considerate separate, ma che si rafforzano potentemente se viste l'una nell'ottica dell'altra. Il Canto genera il senso di una scissione dolorosa e mai pacificata. Paolo e Francesca sono uniti per sempre dal loro amore, ma in questa unione non troveranno mai pace. L'amor cortese che anche Dante ha sentito come fonte di elevazione spirituale e di poesia nella sua giovinezza, fallisce clamorosamente di fronte alla condanna divina, come un sogno che svanisce quando si viene destati da un evento catastrofico. Dante personaggio del Canto rivive in sé la sua stagione creatrice giovanile e sembra non accettare questa condanna: prima si turba sempre più e alla fine sviene, tronca il confronto, quasi si autocensura probabilmente per accettare la condanna divina senza esprimersi contro di essa.
Valeria Serofilli ripropone in questa sua lirica-gioiello il dramma dei due cognati, con il suo stile giocoso e insieme pregnante, sempre leggero ma dall'impronta indelebile. All'inizio i due appaiono come due ragazzi birichini che progettano di rubare una mela: è il furto di una vita, quasi un gesto che segna il passaggio alla vita adulta, o, forse, una liberazione da un ambiente familiare costrittivo. Le labbra rosse di Francesca diventano un altro frutto proibito, come quello gustato da Adamo ed Eva. La genialità di questa lirica consiste, secondo noi, anche in questa assimilazione di Paolo e Francesca proprio con Adamo ed Eva. In una chiave modernissima i due Romagnoli diventano i cloni dei Progenitori, rinati attraverso un libro, il romanzo arturiano che stavano leggendo insieme.
Se si guarda oltre, però, notiamo che la Serofilli è riuscita a ricreare nel breve volgere di questa lirica quel senso di scissione insanabile che abbiamo visto essere una delle caratteristiche del Canto dantesco. Il senso del doppio è un filo conduttore di tutta la produzione della Serofilli, come andiamo ripetendo da anni, e forse proprio per questo la sensibilità dell'Autrice si è lasciata attrarre dai due cognati romagnoli, uniti e al contempo divisi per l'eternità. Il senso della scissione balza agli occhi in certi accostamenti semantici fra parole in posizione di rilievo: uno è "verticale" (clonati - rinati), e qui i termini sono semanticamente omogenei, ma osserviamo che li divide un abisso culturale. Poi ne abbiamo altri "orizzontali": ad esempio: unico   imitativo, dove invece abbiamo una netta opposizione. La più significativa di queste opposizioni è passione   condanna, sottolineata dalle allitterazioni circostanti (passione…troppa). È qui che la Serofilli non sfugge, come fa il Dante personaggio, alla espressione libera di una non accettazione e coglie, nel contempo, quello che il Poeta non ha voluto dire: Con Dante io vi comprendo! Tutto questo ci appare coerente con la vena passionale e dionisiaca che affiora in tutta la produzione serofilliana e che ci risulta evidente fin dalle sue prime raccolte. Ricordiamo appena le sue Vendemmia in "Acini d'anima" e Estasi panica in "Tela di Erato": quest'ultima, inoltre, già si abbinava al motivo della divisione insanabile e, appunto, cominciava con la parola "scissa".


Andrea Salvini
Livorno, 10 Marzo 2016



Su Amalgama di Valeria Serofilli

Valeria Serofilli ha prodotto stavolta una silloge degna della piena maturità espressiva da essa raggiunta. Le allitterazioni, le iuncturae asintattiche, le punte ironiche che fuoriescono imprevedibili dall'idea principale formano ormai un trasparente caleidoscopio che ruota incessante, perfettamente funzionale agli scopi espressivi dell'Autrice.
Una riuscita metafora mediterranea lega come un'allegoria quasi tutte le liriche prima parte: è quella del pane o del dolce impastato che rivela sapori sempre nuovi. Pensiamo subito alle lunghe, placide descrizioni dei banchetti omerici, quando le ancelle, o i guerrieri, preparano le mense e le vivande. Da essa si sprigionano inattese altre allegorie più contemporanee: quella dell'inchiostro, emblema della poesia che talora pare sprizzare dall'impasto come un sapido ripieno, o quella dei morsi di chi divora la vivanda preparata, ovvero il lettore. L'Autrice ci ha abituati ormai alle luminose simbologie mediterranee, come abbiamo avuto modo di indicare anche in altri nostri interventi: ricordiamo la folgorante imagine degli ulivi che apre Nel senso del verso. Del resto, nel segno dei sapori del Mediterraneo, simbolo della sua poesia, si apre la sua produzione con gli Acini d'anima e ad essi il richiamo è qui esplicito in Acino parola (XI).
Omero ci sembra dunque presente all'Autrice, ma anche Platone, come appare evidente in Compito del poeta (XII): qui il poeta, appunto, viene concepito come capace di guidare chi si trova ancora al buio: il mito platonico è suggestivamente rinnovato, dato che per la Serofilli non sembra trovarsi al buio solo chi è dentro la caverna, ma anche chi ne esce, dato anche fuori regna il buio. E come non pensare, poi, ad Archiloco di Paro, grande bevitore di vino, quando ella si proclama bevitrice di birra… ma più d'inchiostro, per sottolineare la misteriosa condizione del poeta, che vive stati di coscienza interpretabili come ebbrezza, che non prova certo chi si appiattisce nel banale e beve solo coca cola.
Queste sottili trame, che nella prima sezione di Amalgama ci paiono legare l'Autrice al mondo della cultura greca, ci aiutano a cogliere una sorta di rinnovamento tematico che avvertiamo in tutta la raccolta: mentre nei libri precedenti vedevamo la Serofilli impegnata in un dialogo con l'essere che metteva in discussione le idee montaliane, qui abbiamo invece un deciso orientamento sul mondo dell'uomo, ossia verso quello sterminato spazio di riflessione di tutta la civiltà greca, da Omero in poi. L'Autrice continua anche qui quella sua risentita meditazione sul valore della poesia che abbiamo visto essere l'asse portante delle ultime raccolte: ne fanno fede già in questa prima sezione certe delicate aperture prospettiche volte a cogliere le fatiche quotidiane del vivere come in Pane quotidiano, la magia della primavera della vita: E sorride la ragazza in motorino mentre un rosa / accende la mia voce (Indosso arcobaleno, IX). Sì, stavolta la poesia della Serofilli celebra l'uomo ed ella lo asserisce espressamente: la carne, l'uomo che vive il quotidiano travaglio, in lei si fa parola: Parola corpo mentre scrivo per te che espandi la ricerca per trovarci. (Carne parola, VIII).
A questo punto possiamo anche spiegare il senso della sezione centrale, dedicata alla rivisitazione degli episodi più noti dell'Inferno dantesco: l'Alighieri è, insieme con Omero, un altro grande poeta dell'uomo e della sua storia. L'Autrice ha indubbiamente cercato un confronto, o meglio, un dialogo affettuoso, con un simile Maestro della poesia con i mezzi di cui dispone oggi. Ella passa accanto a Paolo e Francesca, Pier della Vigna, ser Brunetto e gli altri come di fronte a dipinti , di cui ritrae il messaggio in un breve giro di versi efficacissimi, col suo stile personalissimo in cui un incontro inatteso di parole vale più di molte pagine di critica. Accenniamo appena che ci pare di trovarci in presenza di quel principio dell'ut pictura poesis a cui la Serofilli ha esplicitamente affermato di ispirarsi ormai da alcuni anni.La terza e ultima sezione, è forse la più personale e risentita delle tre, e, a ben guardare, la più raffinata. Essa si apre con La chiocciola (o Telamone), in cui non sfugge il prezioso richiamo ad un poco conosciuto mito greco, quello di Telamone, eroe salaminio compagno di Eracle, e alla figura storica del filosofo Diogene, infaticabile cercatore della verità sull'uomo. Tenendo conto di quanto abbiamo osservato riguardo alla prima sezione, la presenza di questi richiami al mondo greco, del mito e della storia, non ci sorprende affatto. Telamone e Diogene sono due eroi della libertà e della ricerca: tutta la sezione è pervasa da questi due temi complementari, già presenti in alcune poesie della prima sezione, come la già ricordata Compito del poeta e Spazi (XIII). I brani Soluzione, Partenza, Altrove, Aquilone nano, che significativamente chiude la silloge, tanto per citare qualche esempio, sono tutte liriche nelle quali si percepisce immediatamente l'anelito alla libertà assoluta o, quanto meno, alla fuga liberatoria. E ricordiamo che pure i personaggi danteschi che l'Autrice ha scelto per la sezione centrale aspiravano tutti, più o meno, ad una libertà che invece ha dato loro la sconfitta, come Pier della Vigna o Ulisse.
Certo ci è sembrato che un filo di malinconia percorra tutta la raccolta. La Preghiera del poeta, un vero e proprio canto di amore per la poesia, ma al contempo di sfiducia nella disponibilità del mondo ad ascoltare la voce di essa, ci pare l'esempio più significativo di questa tonalità generale di Amalgama. Altre liche, come Feto prigione, 16 novembre, l'intera sezione su Dante, con il senso di contrasto interiore che ispirano ci sembrano rafforzare l'impressione che abbiamo appena enunciato. Forse non poteva essere diversamente: quel confronto, quell'apertura al mondo dell'uomo e all'ineliminabile dramma del suo vivere che ha iniziato a connotare la Musa della Serofilli, non potevano non lasciare almeno un retrogusto amaro, come l'inchiostro sul pane…

Andrea Salvini

Pisa, 10 Settembre 2010


 
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