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Giorgio Bárberi Squarotti, Le langhe e i sogni, Edizioni Joker, Novi Ligure 2003.

Saggi e note critiche di Valeria Serofilli

LA FIGURA FEMMINILE NELLA PRODUZIONE POETICA DI GIORGIO BÁRBERI SQUAROTTI

Considerazioni di Valeria Serofilli, con particolare riferimento a Le Langhe e i sogni, (Joker Ed., Novi Ligure, 2003).
Pubblicato in Il Convivio - Anno VIII n. 3 Luglio - Settembra 2007 n. 30

In qualità di lettrice e autrice donna, il presente contributo intende focalizzare le diverse immagini della figura femminile che si delineano nei componimenti lirici di Giorgio Bárberi Squarotti, con particolare riferimento al recente Le Langhe e i sogni e con un occhio rivolto alle fonti iconografiche.
Se, infatti, lo studioso olandese Huizinga usa l’iconografia come fonte storica
(1), in questa sede s’intende individuare nell’iconografia un probabile fil–rouge che accomuna la figura femminile della lirica squarottiana a raffigurazioni di donna in alcuni capolavori pittorici.
La donna: non solo la destinataria privilegiata, la protagonista, l’ispiratrice delle liriche considerate, ma vera allegoria della Poesia.
Le “Visioni” si evolvono nei “Sogni”, necessari all’equilibrio biologico, per materializzarsi infine nella realtà delle Langhe.
E tra sogno e materia c’è la donna.
Più sogni o più Langhe? Un quesito di non facile soluzione. Se nella raccolta precedente spettava alla Giovinezza introdurre il lettore alle visioni
(2), la prima immagine femminile a dare ne Le Langhe inizio alla festa di poesia(3) è quella di una precaria Verità: nome che a volte la donna porta addirittura impresso sulla pelle candida(4).
Una Verità protagonista di una festa dell’inizio, ma non l’inizio del nulla. L’inizio semmai di una ricerca di sé in cui l’atto dello spogliarsi acquista un chiaro valore metaforico nel senso di ricerca della propria essenza più autentica, e al contempo il riscatto dal proprio mal di vivere, dalla propria inettitudine.
Come se il nudo rivelarsi del corpo femminile si volesse contrapporre allo stato verginale che rappresenta invece il non manifestato, il non rivelato.

“ (…) sconsolata (…), si sedette / sul divano viola, il capo curvo / (…) poi si decise per l’unico riscatto / possibile della sua inettitudine, / iniziò a spogliarsi, pure in questo / inesperta (…) ”.

L’immagine di questa figura seduta a capo chino riporta alla mente la celebre “Melancholia I” di D
ürer, di complesso significato allegorico, anch’ella assisa con la testa reclinata, pur se non circondata da biancheria intima, fazzoletti e pizzette, bensì da strumenti geometrici(5).
La depressione e l’umor nero che attanagliano la protagonista della lirica, come dell’incisione a bulino, derivano forse dalla scoperta del
nulla e del vuoto, che è anche ansia di superamento.
Nausea per Sartre, per Moravia noia.
Contro il nulla, la forza della parola poetica che si fa corpo.
E quale forma è più aggraziata ed evocativa del corpo femminile? Così la parola squarottiana si fa corpo di donna, e corpo nudo perché nuda è la raffigurazione iconografica della Verità e le numerose allegorie di questa. Nuda è la protagonista de
Le déjeuner sur l’herbe (1863) di Manet: sulle orme del “concerto campestre” di Giorgione o Tiziano, la tela rappresenta, infatti, la conversazione tra una donna nuda e due giovani accuratamente vestiti. Qui, anche se non panini, compaiono pizzette sparse per terra. Sembra che la giovane si sia spogliata volutamente, conservando però una tranquillità e un’indifferenza non consuete e certo sconosciute alla bruna ragazza squarottiana, imbarazzata davanti ai <<tre teologi>> proprio perché svestita.
Completamente nuda è anche la ragazza al balcone della piazza
(6) come le fanciulle sull'altalena(7) o le donne bionde dell’isola(8)e la signora sopra il letto dell’occhialaio(9), lo Spinoza tanto stimato da Bárberi Squarotti. Anche Vale(10) si spoglia completamente, mentre ha nudo solo il seno la ciclista bionda, come a seno nudo è la Libertà che guida il popolo nella tela di Delacroix e i personaggi femminili di certi quadri storico – patriottici di Velazquez e dell’Hayez (ad es. I vespri siciliani di quest’ultimo). Nude e per la prima volta, sono le tonde tette della barista(11).
Quindicenni dalle minime mammelle “come un palpito / tenute nelle attese dell’estate”, (mammelle e non “seni”, rivelando la propria attenzione al purismo della lingua in quanto la forma plurale del termine costituisce un francesismo), con chiome lunghe e labbra scarlatte e avide bocche, lo stesso labbro rosso che becchetta il corvo saputo, o l’alta ciclista bionda dalle robuste cosce abbronzate, le stesse spalancate da fanciulle sull’altalena e ancora la giovane signora e Valentina, che oltre a chiari risvolti simbolici corrisponde a una ragazza di Monforte: tutte epifanie femminili celebrate e sintetizzate nella lirica “Ancora doni”. L’affollarsi di icone affascinanti e sottilmente inquietanti in particolare modo nella raccolta
Da Gerico (Guida editori, Napoli, 1983), riportano alla mente tele di Bosch che tra i fiamminghi si distinse per l’abbondanza dei particolari.

Tra pittura e poesia il personaggio di Flora nella poetica squarottiana


Tra sogno e materia, il lieve fluttuare di Flora(12), un’altra delle numerose protagoniste femminili del panoramo lirico squarottiano, ci riporta ad immagini della pittura romana: a certe figure isolate e come sospese con infinita grazia e leggerezza su sfondi campiti a tinte vivaci, come la così detta primavera proveniente da Stabia(13), caratterizzata da un forte realismo ed espressionismo nel solco della tradizione ellenistica.
Nel caso specifico, il nome della donna presa dall’autore nella lirica è quello dell’antica dea italica (Flora, in osco Flusia), collegata con il fiorire in primavera delle piante e dei fiori, che ebbe presto un culto a Roma: le Floralia, che risalgono al sec. 3° a. C.
Una tarda tradizione faceva addirittura di Flora l’originario nome sacrale di Roma.


Un’altra immagine di sensibilità muliebre c’è offerta dalla personificazione della Bellezza che, se pur nuda quanto l’impudicizia, arrossisce nel contemplare la vastità del cielo (“…si distese / sul cemento umido, … per guardare confusa e un po’ arrossendo / la sublimità del cielo divino”)(14) .

La pennellata della parola poetica di Bárberi Squarotti è precisa e i nomi urgono nella sua poesia, come i colori puri sulla tavolozza di un pittore.
Un nominalismo inserito però in un contesto onirico, in una compenetrazione tra sfera razionale e fervido e creativo gioco che supera il tradizionale interferire di ragione e sentimento.
Quasi quadri di Chagall alcune liriche, in cui la fantasia disegna i propri sogni e la memoria ricorda oggetti e immagini con libera immediatezza.
Questo conferma l’inclinazione di B
árberi Squarotti a rappresentazioni iconiche.
“Le epifanie femminili, memorie letterarie e pittoriche”
(15) proseguono <<In un altro quadro>>, in cui una giovane signora, in una fiamminga prospettiva di quadro nel quadro, proietta i desideri oltre la cornice della propria esistenza. Un tromp–l’oeil che ritorna anche nella lirica <<Tutti gli specchi>>(16). Recitano altri versi, approfondendo il tema e conducendolo fino all’interno di un territorio strettamente spirituale:
“ quadro esterno / della bellezza, carne vera e pura / creazione del pittore divino”
Shelling sostiene del resto che la pittura può abbracciare una parte maggiore dello spazio del mondo e poetare con quell’estensione propria dell’epica
(17) in quanto, come dice Orazio, la poesia è come la pittura e il libro come il quadro.(18)
La giovane signora protagonista della lirica, rappresenta un ulteriore aspetto della Verità.
Una verità “altra”, dipinta oltre il microcosmo quotidiano: “ (…) la nuova tentazione, allora, vita / dipinta e un poco anche vera … incarnata visione (…) ”.
Nella donna, infatti, oltre alla Poesia, sembra incarnarsi il tempo dell’attesa e della festa, un tempo dionisiaco in lotta con l’apollineo. Sotto lo sguardo del gatto nero
(19), simbolo dell’ordine domestico, la mano osa afferrare la vera festa, eternata nelle natiche tonde e nude celate sotto al tessuto lieve della realtà.
Ma non una donna diavolo, una donna tentatrice che ostacola la salvezza dell’uomo come negli exempla del predicatore domenicano Jacopo Passavanti.
Per il carbonaio di Niversa, uno dei quarantotto esempi edificanti del suo
Specchio di vera penitenza, il monaco fiorentino s’ispira al mito di origine nordica della “caccia infernale”(20) già incontrato in Boccaccio (novella di Nastagio degli Onesti) ma presente anche in Dante (Inferno XIII, 109 – 129).
Se il racconto presenta infatti analogie nella fabula con Boccaccio, tuttavia in Passavanti si riflette la concezione del cristianesimo medievale che condanna il peccato carnale, fonte a sua volta di altri terribili peccati, mentre Boccaccio riflette la nuova visione naturalistica per cui la colpa è semmai di contrastare il desiderio sessuale.
Si tratta di una visione più aperta , nata dalla civiltà urbana comunale e borghese anche se antecedenti si possono trovare all’interno della stessa cultura medievale, nel filone cortese: la punizione infernale delle donne che si sono negate agli amanti, è un tema svolto da Andrea Cappellano e dal Roman de la Rose. Non una donna diavolo si è detto: la donna-miracolo stilnovista piuttosto, perché proprio il
miracolo nasce dall'unione delle labbra innamorate strette in un bacio, come l’illuminazione dal candore del corpo nudo, mollemente steso(21).
La donna squarottiana tuttavia va oltre il canone stilnovista e anche petrarchesco, anche se il poeta definisce canzonieri le raccolte.
<<Ho scritto mille canzonieri per una sola>>: un’ulteriore conferma della donna quale filo conduttore delle varie raccolte poetiche, filo di seta in una collana di perle.
La figura della donna squarottiana è collocata nel corso del tempo come in Montale: dai versi di Squarotti emerge Luzi che sempre sulla scia montaliana tratta i problemi fondamentali dell’esistere.
Gioielli–amuleto “pungenti e aspri fra gli orecchi e il polso”, come il bracciale di Clizia o la cappelliera di Liuba per Montale, ovviano però all’inesorabile incedere del tempo, ritagliando “un cerchio esatto di cielo celeste”, aprendo un varco al pessimismo esistenziale, offrendo un’ulteriore possibilità di vita, anche se si tratta di “una risposta disperatamente / vana come il vento dopo il fiacco invito che ci fu, o così pare, nel tremare della vita possibile/”.
Gli occhi “ebbri e tuttavia interessati e miopi” di Valentina, come già nella precedente raccolta quelli di Piera (moglie dell’Autore), ricordano la miopia della montaliana quattr’occhi di “Ho sceso dandoti il braccio”, ricollegandosi al tema dello sguardo della donna, saggia o veggente.
Vale–Valentina, Verità rivelata, si toglie la veste bianca, spalanca la porta di casa e si rivela, lei sola, nel buio, vestita di luce, unicamente di luce.
La Verità, nella variante della Speranza (la speranza di un angolo di luce che mai si spenga), non corrisponde tuttavia ad una figura femminile
(22).

Un’amara ironia, che Bárberi Squarotti tanto apprezza in Sanguineti, trasuda fra le molliche sul tavolo delle studentesse su cui si posa il nero
passero saputo.
Ad esser nero è, infatti, il passero, non il corvo e senz’altro s’instaura un gioco di corrispondenza tra l’uccello, il colore e le tensioni psichiche.
L’uccello generalmente rappresenta gli stati superiori dell’essere, in quanto svolge un ruolo intermediario tra il cielo e la terra e l’aggettivo “saputo” sembra indicare il saggio più che il saccente.
L’uccello che sorvola le acque allude, infatti, alla Sapienza e le acque virginali diventano feconde e piene di vita grazie a quest’uccello che sembra covarle. A differenza degli esempi citati in precedenza, la Verità, nella variante della Saggezza, s'incarna in questo caso non in una figura femminile bensì nell’uccello piumato. Potrebbe trattarsi di un passero a due teste: la prima, simbolo dell’anima attiva, mangia il frutto dell’albero, nello specifico il labbro rosso e i capezzoli erti della ragazza, l’altro, in quanto conoscenza pura, guarda senza mangiare “l’altro frutto / maturato”.

La Poesia squarottiana, dal bel sembiante di Donna, palpita e impera al fruscio della sottile veste di Valentina, o meglio di Vale, di Doriana, di Roselle (che allude ai versi della poesia di Malherbe in origine << … et Roselle est devenue quand vivent les roses …>>, poi corretta dall’editore <<… et, rose, elle est devenue, …”>>), di Flora e della “sua” Laura: tutte allegorie della parola poetica, la sola in grado di colmare il vuoto che sempre generano il caos, il nulla e la malinconia, cristallizzando per sempre, nero su bianco, l’armonico fluire di visione e sogno.


Pisa, 15 marzo 2004


Note:
1. Huizinga,
Le immagini della storia, Einaudi, 1905.
2.
Visioni e altro, Piovan Ed., Abano Terme (Pd), 1983.
3. Festa di poesia alla quale Dio stesso non manca mai, come recita “Per la mia Laura” in
Visioni e altro, Padova, 1983,
p. 13.
4. “Di colpo, mostrò allora il nome scritto / sulla pelle candida, che è quella / dell’esterna e precaria Verità”: così recita
l’illuminante lirica “Cinema”, in
Bollettario n° 30/33, quadrimestrale di scrittura e critica, versione telematica.
5. Una “divina melancholia di tutte / le avventure e le attese e la speranza / della bellezza della carne dell’anima” è per
Squarotti il corpo femminile.
6. “Gocce”, in
Le Langhe e i sogni, Joker Ed., Novi Ligure, 2003, p. 20.
7. “Nel 1902” in
Le Langhe e…cit., p. 62.
8. “L’isola” in
Visioni e altro, cit., p. 27.
9. “L’occhialaio di Amsterdam” in
Visioni e altro, cit., p. 19.
10. “Vale” in
Le Langhe e …, cit., p. 33.
11.Forma” in Barista e altri versi, signum edizioni d’arte, Milano, 2001, p. 27.
12. “Flora” in
Le Langhe e…, cit., p. 49.
13. Immagine riportata in F. Arnoldi,
Storia dell’arte,vol I, Fabbri ed, Milano 1994, p. 270
14. Da “La Bellezza”, inedita, cit. da C. Santoli, nota critica a <<4 poesie inedite>>.
15. Dalla prefazione di F. Pappalardo La Rosa a
Le langhe e …, cit..
16. Entrambe le liriche in
Le Langhe e …, rispettivamente pp. 16 e 55.
17. F. W. J. Shelling,
Le arti figurative e la natura, Abscondita, Milano 2002.
18. L’oraziano
Ut pictura poesis.
19. “Il gatto nero”, in
Le langhe e …, cit, p.17.
20. Quale riportato dal monaco francese Elinardo nei
Flores, (raccolta di sermoni del XII XII sec.) cfr. U. Eco, Gli
intellettuali del Medioevo.
Testi di riferimento: Luperini e Cataldi, La scrittura e l’interpretazione, Tomo II,
p. 200 e Baldi – Giusso,
Dal testo alla storia, dalla storia al testo, Torino, Paravia, 1993.
21. “Divano”, in
Bollettario n° 30-33, versione telematica del quadrimestrale di scrittura, cit.
22. “Dopo i fulmini” in
Le Langhe e …, cit., p. 18.



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