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Venerdì 8 Febbraio 2013 - Valeria Serofilli e Maria Giovanna Missaggia presentano il volume Se la luna fosse ... un aquilone di Ubaldo de Robertis

Incontri al Caffè dell'Ussero e Iniziative culturali > Incontri al Caffè dell'Ussero > Incontri al Caffè dell'Ussero di Pisa - Anno 2013

Nella foto: Ubaldo de Robertis, Maria Giovanna Missaggia e Valeria Serofilli
Foto: Pasquale Palomba

Nota di lettura (versione.pdf) di Valeria Serofilli al volume Se la luna fosse … un Aquilone (Limina Mentis Editore, Villasanta, MB, 2012) di Ubaldo de Robertis.

Di notevole impatto il volume
Se la luna fosse… un Aquilone, pubblicato nel giugno 2012 da Ubaldo de Robertis per Limina Mentis Editore di Villasanta (Monza Brianza) all’interno della collana Ardeur.
Il titolo sembrerebbe più appropriato ad un libro di fiabe, o a testi di formazione quali
Il Piccolo Principe e in grado di suscitare risposte adeguatamente immaginifiche del tipo “se la luna fosse un aquilone, scenderebbe dal cielo in cerca di un bambino con il quale giocare” oppure “vorrebbe un filo o un elastico lunghissimo”.
Tuttavia già dalla copertina con l’inquietante immagine di Amalasunta occhio giallo di Osvaldo Licini, si crea un immaginario fantastico, sospeso tra sogno/incubo e realtà.
Non a caso Licini, con Scipione e Cucchi, è uno degli interpreti dell’espressione visionaria derivante da una marchigianità che si può identificare in una pennellata capace di coniugare quotidianità e visione, mito e tradizioni popolari che caratterizzano il paesaggio stesso di una regione plurale che sembra sfuggire ad ogni rigida definizione.
La distanza tra il titolo apparentemente rassicurante e il contenuto sofferto ed impegnato, è confermata anche dalla lettura dei testi. Già la lirica d’apertura, che contrariamente a quanto accade in molti volumi, non è l’eponima (quella che da il titolo al libro) ma reca il titolo “Presagio”, si manifesta come portavoce dell’incubo diffuso riguardo all’imminente fine del mondo per inondazione, tra l’altro assai attuale in quest’ultimo periodo, per la Profezia dei Maya.
Recitano alcuni versi di “Presagio”:

“Schiume increspate / fremono
in muraglie”.


L’io lirico avverte dunque tutta la precarietà, l’incertezza e la transitorietà della condizione terrena, quasi rispecchiando il pensiero di Pascal dell’
Esprit de finesse, anch’essa presa di coscienza della limitatezza umana e dell’impossibilità di raggiungere punti fermi, insanabile contraddizione fra il volere e l’ottenere. Anche per De Robertis, ricercatore chimico nucleare, l’uomo si delinea come pura contraddizione in sé, posto tra i due abissi dell’infinito e del nulla; cito da “Virtualità”:

“Non crea immagini e nemmeno rispecchia il vero
la realtà concreta/ o almeno una sua possibilità/
e neppure uno stato di sicurezza
di sensatezza o uno di quelli transitori
fatto di precarietà incertezza
frutto della contraddizione
smarrimento afflizione
E tantomeno riflette lo stato del mio esistere futuro”.


Sul versante linguistico la lirica “Presagio”, già poco sopra analizzata , in virtù del similare apparato fonoprosodico sembra richiamare il montaliano “Meriggiare, pallido e assorto” precisamente nei versi:

“(…) la sferza dei venti che scompiglia
drizze di renda ed amantigli
schiume increspate
fremono in muraglie”

Così Montale:

“E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com’è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.”


L’influenza montaliana sembra restare tuttavia un episodio isolato, anche se una certa
poetica dell’assenza sembra riaffiorare nella terza lirica dal titolo “Gli amori e le idee”.
Proseguendo nell’esame della scelta linguistica dell’autore, per quanto riguarda la punteggiatura, troviamo l’esclusione quasi totale dei segni d’interpunzione, nonché l’uso di pause di vario genere, quali puntini di sospensione o parole distanziate da un doppio spazio vuoto come una cesura interna.
Tra i numerosi esempi possibili valgano i seguenti:

“Si offusca nell’attesa di una
stella cadente.”
(da “Ci sono figure”).


“Non si sfugge al divenire- dicono-
non esiste una …porta carraia
una via di fuga”.
(da “Girasole”)


Sul piano lessicale, parola tematica ricorrente nel volume è
riverbero, nel senso di riflesso e di calore irraggiato di sera dai corpi che lo hanno assorbito di giorno
Del resto la luna stessa, in quanto priva di luce propria, vive del riflesso del sole
e in questa sua dipendenza può dunque venire a rappresentare il principio femminile, l’Amalasunta della copertina.
Nella lirica “Mondi paralleli” De Robertis ci parla del riverbero di “un altro universo,versione parallela del nostro mondo (…) non comunicante/ infinitamente vicino/ o distante/”. Ci parla di un universo opposto alla tenebra
dell’ignoranza.
Se il titolo del volume del nostro autore richiama quello adottato da Emilio Salemme nella sua pubblicazione del 2008,
La luna e l’aquilone, l’utilizzo
della frase ipotetica non è di scarso rilievo, in quanto l’assunto viene trasportato in una dimensione esclusivamente irreale.
Non solo il recupero della memoria e il guardarsi indietro, come cura per l’irrequietezza e la disillusione dell’animo umano, come in Salemme, ma la parola stessa, in grado di travalicare il confine sfidando lo scorrere del tempo, “la freccia del folle ordinatore”.

Mio buon Eraclito perché non dire
che l’arciere è il tempo
e a volger la sagitta è la parola
che al tempo conferisce il senso?

Timida oscura anche spoglia anche ribelle
travalica il confine fra ciò che più non è
e quello che non esiste ancora
quasi a sfidare la freccia del folle ordinatore
la cuspide che alfine la trapassa.”
(da “Parole e Tempo”)


De Robertis cerca un allineamento ancora più soddisfacente e speculare con la filosofia eraclitea che tende ad identificare nel
logos la fonte prima con cui si arriva alla legge universale.

Eraclito, nella sua filosofia degli opposti, sostiene che la forza che apparentemente disgiunge e distrugge, in realtà tiene unito il tutto. In quest’ottica si colloca l’esempio dell’arco e della freccia, che abilmente sincronizzate dall’arciere, sortiscono l’armonia del risultato. (In Eraclito anche gli accenti sono ambigui tanto che la parola stessa arco, bìos, in grado di conferire morte, se letto biòs significa vita).
Per far si “Che solo resti il senso d’un silenzioso eloquio”, come recitano i versi
contenuti nella lirica eponima che esprimono bene, a mio avviso, il rapporto di
De Robertis con il proprio materiale espressivo.

In conclusione è possibile rilevare che l’autore, in questo suo libro, conferma la sua capacità di rendere concreti sensazioni e pensieri di aspetti in apparenza astratti e, per dirla con una sua frase, “in grado di trasfigurare un astro in un oggetto”, come auspicato dal titolo stesso del volume, al fine di dissipare i dubbi dell’essere, dell’appartenere e dell’esistere.


Valeria Serofilli


Pisa- Caffè dell’Ussero, 8 Febbraio 2013




Nota di Lettura di Maria Giovanna Missaggia al volume Se la Luna fosse…un Aquilone (Limina Mentis Editore) di Ubaldo de Robertis


Rara per chiarezza e impegno interpretativo l'introduzione alla raccolta di Emilio Sidoti, nella quale si analizzano le singole poesie come nuclei argomentativi di un discorso filosofico dell'autore, che ha per oggetto il percorso della civiltà occidentale. Per Sidoti, infatti, la poesia di de Robertis è poesia eminentemente filosofica:

dall'io del poeta, o quantomeno dell'io del singolo, con la seconda lirica il quadro si allarga fino ad abbracciare i presupposti della civiltà occidentale: il culto della ragione, il progresso ad infinitum e con esso l'illusione di poter salire i gradini luminosi di un infinito sapere e di una infinita felicità. De Robertis non si sofferma però sull'assalto al cielo, ma sulla caduta: sulla sconfitta dei miti illuministici.

Apre la raccolta una lirica significativa,
Presagio, incentrata sull'immagine del naufragio.
Ora, il secondo libro del
De Rerum Natura di Lucrezio si apre con un'immagine che, come ha rilevato il filosofo Hans Blumenberg nel saggio Naufragio con spettatore, è un'immagine-archetipo: da una scogliera sicura un osservatore guarda il naufragio di una nave in lontananza.
Blumenberg traccia la storia di questa metafora che egli considera centrale nella civiltà dell'Occidente, e vi rileva uno slittamento di significato, dalla tempesta e dal naufragio sul mare al naufragio che coinvolge la stessa storia dell'uomo, dalla catastrofe naturale alla catastrofe storica. Di fronte ad essa la reazione dell'individuo, quale emerge dalle pagine di scrittori e filosofi dell'Occidente, sarebbe o di semplice spettatore, o di soggetto attivo e protagonista.

Ques'ultimo è il caso della poesia
Presagio di de Robertis, dove il rapporto tra imbarcazione e nocchiero è rovesciato: non sarà la nave, l'opera morta, a frangersi contro i flutti per prima, ma sarà il nocchiere / uomo dello scandaglio / [...] ad aprirsi in squarci / a cedere ... per primo.

Sidoti, dunque, coglie indubbiamente nel vero quando afferma che la silloge delinea il dramma del naufragio di una civiltà (si veda ad esempio la poesia Vaticini). E tuttavia, quello da lui evidenziato è uno dei livelli di significato che corre parallelamente ad altri due: quello letterale dei testi, che rivela apertamente lo spunto o la riflessione autobiografici da cui le poesie scaturiscono; e quello che tale riflessione universalizza, rendendo l'uomo de Robertis protagonista dell'avventura umana per eccellenza: il viaggio attraverso le varie fasi della vita, osservate nel momento in cui alla luce solare si sostituisce la luce lunare, luce degli Inferi (una Luna/Proserpina citata dai personaggi danteschi ad uno dei quali, Ulisse, non a caso fa riferimento in epigrafe la lirica Aristotelis phalacrocorix), ma anche luce fredda come quella della ragione analitica, che subentra a quella accecante e vitale dell'astro solare, simbolo della giovinezza.
Per questa via, si giunge al terzo livello metaforico, quello evidenziato da Sidoti, nel quale la vicenda esistenziale coincide con la vicenda della civiltà occidentale, giunta alla fase (per esprimersi nei termini di Vico) in cui gli uomini "riflettono con mente pura", o affrontano il naufragio della coscienza e della memoria (si veda
Naufragio).

Questa consapevolezza e attitudine analitico-ragionativa è rappresentata allegoricamente da un cielo rischiarato dalla luna, lo stesso della canzone leopardiana sul pastore errante dell'Asia: un cielo, cioè, che esprime ad un tempo la coscienza di una ragione in sfida con l'universo dal quale ogni significato è assente, ed anche lo scacco del potere conoscitivo della scienza, che riesce a dominare la natura, ma non riesce a vincere il limite ineludibile della fugacità della vita umana (Riflessi del tedio).
Si configurano, insomma, tre livelli di significato: autobiografico, collettivo, e universale. Tale sovrapposizione conferisce straordinaria intensità a liriche il cui spunto, strettamente e puntualmente autobiografico, si dilata in significati concentrici, secondo lo schema sopra accennato.
Oggetto di struggente rimpianto è la giovinezza, rimpianto sia perché momento solare della vita, sia perché opportunità mancata di afferrare un significato pieno e disteso dell'esistenza, che la ragione non è in grado di ricostruire quando i sensi sono affievoliti, una volta cioè subentrata la notte e, con essa, la luce della luna. Si veda la lirica
E' vero nella quale centrale è la percezione del limite. L'espressione richiama quasi il limite delle Colonne d'Ercole, che in letteratura è sempre stato il confine geografico assunto a simboleggiare il limite conoscitivo. La giovinezza, al contrario, assume la dimensione di un pieno possesso sul mondo, fino ad abbracciare i quattro punti cardinali, come nella lirica Girasole nella quale questa sfolgorante età della vita assume veste di mito cosmogonico: protagonista ne è una sorta di Fetonte il cui movimento ha per unico confine gli estremi limiti dell'universo.
Se la realtà psicologica dell'io poetante è quella di un mondo infero, in cui la realtà viene rischiarata dalla luce fredda della luna, la giovinezza al contrario coincide con esperienze paradisiache e sensuali (
Del paradiso i frutti e... le fanciulle).
Un punto su cui dissento da Sidoti, infatti, è che l'amore sia visto in questa raccolta con distacco critico quando esso si degradi a "ubriacatura dei sensi", secondo i canoni di un'epoca in cui l'umanità è "ancorata all'effimero" (
Vaticini).
Mi sembra, invece, che esso sia a sua volta esperienza conoscitiva, che ha il potere di rinnovare la comunione panica con il mondo, rappresentata dalla giovinezza (si veda
Il Sole ricorda l'Amore).
L'attribuzione all'amore del ruolo di ultima, estrema illusione, di essere in armonia con il tutto ricorda l'indulgenza di un altro recanatese, Leopardi, per il quale il sentimento d'amore è l'unico dotato di una forza pari a quella della verità analitica:
nella prima delle
Operette Morali, "Storia del genere umano", Giove afferma degli uomini, ormai privati di ogni felicità:

Avranno tuttavia qualche mediocre conforto da quel fantasma che essi chiamano Amore; il quale io sono disposto, rimovendo tutti gli altri, lasciare nel consorzio umano. E non sarà dato alla Verità, quantunque potentissima e combattendolo di continuo, né sterminarlo mai dalla terra, né vincerlo se non di rado.
Altri aspetti andrebbero scandagliati nella raccolta di de Robertis, e cioè:

- in primo luogo, il cromatismo simbolico. La corrispondenza tra colori e simboli viene esplicitamente dichiarata dallo stesso autore. Il rosso viene esplorato in tutte le sue gradazioni: è il colore della vitalità reale (in
Il Sole ricorda l'Amore, si ha "l'essenza di una rosa rossa"), o rimpianta (ne Il Coro delle cose si ha il colore rosso dell'acero in autunno che richiama quando eravamo giovani/e la gioia riempiva i nostri cuori/ e le notti erano buie); digrada al rosa per esprimere pallide sopravvivenze di passioni (Malinconia; o il "sangue rosa della Luna” in Riverberi).

- infine, il metamorfismo dell'io poetante che assume di volta, in volta l'aspetto di animali totemici (in particolare il serpente o il drago, simboli di identificazione con le forze vitali della natura).

Il legame e l'integrazione con la natura sembra essere rappresentato dalla civiltà antica. A questo forse allude la figura, straordinariamente tratteggiata, del cormorano
Aristotelis, nella lirica omonima, che tende Ali verdi / spiegate / contro flutti frangenti / creste d'onda che acuiscono / il sereno sollievo, mentre le creature umane hanno cercato di distendere le stesse ali ma senza successo a causa di ostili influssi di Luna. In altre parole, l'universo aristotelico, perfettamente conchiuso e razionale, che dava senso al tutto, è stato irrimediabilmente smantellato dai cattivi influssi di una ragione che spietatamente non concede salvezza all'uomo (e conseguentemente l'esito della vicenda descritta nella lirica è ancora una volta un naufragio, analogo a quello di Ulisse, richiamato nella citazione ad epigrafe del testo, ed anche più sopra ricordato).
Il metamorfismo si estende agli aspetti linguistici. Parte integrante di esso è il suo assumere forme lessicali e modulazioni diverse per cantare il medesimo nucleo poetico attraverso la scrittura in spagnolo, francese o inglese di alcuni testi da parte dello stesso autore. Si tratta di esplorazioni linguistiche, di giochi di ricomposizione musicale delle stesse immagini al fine di sondarne appieno le risonanze fonosimboliche in sistemi linguistici diversi, l'equivalente di riprodurre una stessa melodia cambiando strumento musicale al fine di estrarne tutte le potenzialità.

Dunque, a cosa allude il titolo della raccolta?
Se la luna fosse... un Aquilone è la premessa di una eventuale ipotesi, o un'affermazione di valore ottativo?
Personalmente la seconda interpretazione mi sembra più coerente con quanto osservato fino ad ora: si tratta, direi, di un profondo rimpianto per un astro lunare visto con gli occhi della fantasia, elemento magico e giocoso di un universo che ancora conferiva, nella sua bellezza,
il sereno sollievo.

Maria Giovanna Missaggia

Pisa, Caffè dell'Ussero 8 Febbraio 2013



Se la luna fosse ...un aquilone
La nuova opera poetica di Ubaldo de Robertis, tra sogno e realtà

di Franco Donatini

Ubaldo de Robertis è poeta da sempre. Anche nei molti suoi testi narrativi, l'elemento lirico e quello introspettivo, che sono gli ingredienti indispensabili della poesia, sono ovunque presenti.
Ho seguito la sua attività poetica da tempo e nelle fasi più recenti si è evidenziata un'evoluzione significativa nel modo di fare poesia. Un'evoluzione sia sul piano del significato che del significante.
La sua poesia è caratterizzata da un linguaggio complesso con un attenzione particolare al ritmo e alla musicalità, che oggi hanno acquisito toni più naturali e meno ricercati, suscitando maggiore emozione e coinvolgimento.
Il significato si è sganciato sempre più dal riferimento referenziale, per collegarsi agli stati d'animo e alle esperienze vissute. La patina filosofica delle opere precedenti ha lasciato il posto a un sentire più immediato e insieme profondo, in cui il poeta continua a interrogarsi sui drammi e i misteri della vita.
Restano i temi a lui cari del tempo che scorre, della nostalgia del passato, dell'ignoto, del rapporto dell'uomo con la vita e la morte, ma sono tradotti in immagini più pregnanti, con un carattere universale che supera l'elemento puramente autobiografico.
La fredda realtà si stempera nell'illusione, nel sogno, la luna diviene un aquilone, pur nell'amara consapevolezza che i sogni restano inevitabilmente sogni, che il tempo non può invertire la sua rotta. E allora non vi sono che due possibilità, quella di “naufragare in questo mare” o elaborare il dramma dell'uomo in termini filosofici per tentare di dare una risposta. E' il secondo approccio che de Robertis predilige, in linea col suo grande conterraneo Giacomo Leopardi, a cui sembra ispirarsi, pur con una sensibilità propria e una tecnica ermetica tipica della poesia moderna.
Alcune liriche sono scritte contemporaneamente in lingue diverse, francese, inglese, spagnolo. Non si tratta di una ricercatezza linguistica, ma del tentativo, secondo me pienamente riuscito, di utilizzare una nuova leva che, sul piano del significante, crea effetti sorprendenti e allo stesso tempo di ribadire l'universalità del linguaggio poetico.
In sostanza si tratta di una poesia introspettiva, riflessiva, filosofica; e tuttavia tenera, sensibile all'impeto visionario e al richiamo dell'irrazionale, come dice nell'introduzione Emilio Sidoti. Tutto questo con uno stile che è divenuto leggero, aereo, quasi con la speranza recondita che la leggerezza delle immagini possa lenire, anche solo per un momento, il dramma collettivo. Una poesia, quindi, che coniuga la complessità profonda del sentire con l'immediatezza delle emozioni.

Franco Donatini


Scrittore, docente universitario


Se la Luna fosse …un Aquilone di Ubaldo de Robertis, Limina Mentis Editore, 2012
di Floriano Romboli

Il testo incipitario di Se la Luna fosse …un Aquilone è felicemente indicativo di alcune essenziali linee di ricerca, contiene cioè nuclei primarî di significato che la raccolta poetica verrà precisando ed esplicitando in un discorso estetico-intellettuale suggestivo e stimolante nella sua coerenza problematica.
“ Fuori del mare…” : è l’emergere dell’
animus cosciente da quella “materia/ madre sostanza prima” evocata successivamente ( v. la lirica intitolata Lo Sciamano) e intesa quale agglomerato indistinto e potente, indifferenziata fonte di energia, fondamento solido e fecondo dell’essere.
Esistere, avvertire e manifestare senso di sé è uscire dal mare e dare inizio all’avventura di una vita responsabile, è acquisire la specificità e l’autonomia dell’animale-uomo, pur nella consapevolezza della fragilità delle costruzioni in cui può prender forma e provvisoriamente assestarsi il fremito vitale-naturale, l’insieme delle “schiume increspate”, come con immagine davvero efficace l’autore sa rendere l’idea del dinamismo costante e affascinante della vita nella sua irriflessa immediatezza.
L’uomo – “specie presunta intelligente/ cosciente autoreferenziale” – ha spesso inteso differenziarsi dalla base fisico-materiale che l’accomuna agli altri viventi, ma è poi stato costretto ad ammettere l’imprescindibile “impronta animale che è dentro”; nonché a considerare che l’autentico equilibrio esistenziale consiste – al di là delle tante ferite inferte dal dubbio razionale – nel rientrare, dopo essersi allontanato dalla città, e quindi dall’artificialità dei varî contesti di
civiltà, nel grembo accogliente della natura:
“Sull’orlo del silenzio si distende/ nell’intimo dialogo con la natura/ come fece da principio”.

Floriano Romboli

*

Floriano Romboli (Pontedera, 1949) ha compiuto i suoi studi presso la Scuola Normale di Pisa. Si è interessato alla cultura rinascimentale, studiando soprattutto la poesia epica del Tasso; è poi passato ad occuparsi della letteratura italiana ed europea fra Otto e Novecento. Fra le sue pubblicazioni:Un’ipotesi per D’Annunzio. Note sui romanzi, ETS, Pisa 1986;Le ragioni della natura. Un profilo critico di Bino Sanminiatelli, Solfanelli, Chieti 1991;La letteratura come valore. Scritti su Carducci, D’Annunzio, Fogazzaro,Tirrenia Stampatori, Torino 1998;Fogazzaro, Palumbo, Palermo 2000; Natura e civiltà,Palumbo, Palermo 2005. Ha curato l’edizione dei Racconti fogazzariani (Mursia, Milano 1992). È docente a tempo indeterminato di Lettere italiane e latine nei licei e insegnante di Letteratura italiana presso la Scuola di Specializzazione (SSIS) di Pisa. Fa parte della Giuria del Premio Pisa.

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Pisa, Caffè dell'Ussero 8 febbraio 2013,


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